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MONTERODUNI TRA ANTICHITÀ SAPORI E CULTURA
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FACCE DI PIETRA



Di Andrea Gentile
Dove si nascondono le cose autentiche?, mi vado chiedendo mentre guido lungo la Statale 85 che da Isernia, Molise, porta a Vairano Patenora. Possono nascondersi ovunque, possono arrivare da un passato che è un abisso. Eccolo: proprio qui, a Isernia, è stato trovato pochi giorni fa il dente da latte di un bambino di Homo heidelbergensis. È vissuto 600.000 anni fa: è il resto umano più antico mai trovato in Italia. Appartiene agli antenati dell’uomo di Neanderthal.

La mia giornata è dedicata, però a un’altra scoperta, molto più recente. Non arriva da seicentomila
anni fa, ma dagli anni Sessanta. Accendo il motore. Sulla Fiat 500 blu degli anni Sessanta, prima automobile acquistata da mio padre e tuttora abile per tragitti brevi, ho installato artigianalmente un’autoradio. Mentre lo scrivo, mi rendo conto che si tratta di pura vanità. Come molti mancini, non so fare nulla di pratico, non ho il polso di un matematico, come cantava Guccini, e coi motori non ci so fare: l’unica differenza con il cantautore è che so guidare, senza convinzione, con qualche paura, almeno, però, il poco che basta per arrivare a questo luogo pieno di segreti e misteri, questo luogo nascosto, dove pure si annidano i miei ricordi di giovane innamorato.
La verità è che non ho installato nulla, ho soltanto portato da casa una vecchia radio, non così vecchia da non incorporare un lettore cd, e l’ho appoggiata sul sedile retrostante. Dove si nascondono le cose autentiche? L’amore, anche quello passato, si nasconde, sempre, dentro i cassetti delle stanze umide. I pensieri, quelli più veri, sgorgano alla notte, dentro le tenebre, e svaniscono subito dopo, dentro il nostro sonno.
E gli oceani? Sono forse le uniche cose autentiche a non essere nascoste,
ma se ne stanno lì, ai margini della terra, così invadenti, così discreti. Anche qui, nella regione Molise, certamente la più sconosciuta d’Italia, le cose autentiche si nascondono negli angoli, negli anfratti, negli abissi più oscuri, gli abissi del passato, o quelli a venire. Denti di bambino. Pastori geniali. Non ho fatto altro, pochi giorni fa – di ritorno da Milano, la città in cui vivo – che tuffarmi nel cassetto 1.0 dei ricordi. Lo avevo custodito e arricchito negli anni molisani, gli anni della scuola. Le lettere degli amori dell’infanzia. Quelle degli amori dell’adolescenza. Ti amerò per sempre. Quaderni interi scritti a mano da calligrafie liceali: “Devono aver diviso in due il mondo, e penso di essere dalla parte sbagliata”. Evidentemente l’avevo fatta grossa. Mi erano poi capitati, tra le mani, gli amori più recenti, quelli universitari. Avevo preso una foto in mano. Una scultura di pietra, il volto arcaico di un uomo bruto. Avevo letto il retro. L’amore mio, Rosa, mi raccontava di questo posto, nascosto nelle campagne del suo paese,

Monteroduni. Una capanna piena di sculture. Creazioni di un pastore bizzarro. Una geografia della meraviglia e del potere. Me ne ero dimenticato quasi subito, avvoltolato e distratto nei flussi delle intensità amorose. Cosa nasconde questo luogo, e cosa nasconde questo uomo? Quale cortocircuito spinge un pastore a scolpire la pietra, dopo una giornata di pascolo? Ho iniziato a chiedermelo solo oggi, tanti anni dopo. Ho mandato a Rosa un breve sms per saperne qualcosa in più. Mi ha risposto repentinamente, con freddezza – eppure stavolta non ricordavo di averla combinata grossa – e mi ha consigliato di sentire Michele Tuono, uomo colto e curioso, di Monteroduni.
“Si chiamava Nicola Bertone. Era un pastore. Negli anni Sessanta quel posto era diventata una sua ossessione. Portava le pecore al pascolo e se ne tornava sempre con delle pietre. Le scolpiva fino a sera, ma in piazza non raccontava niente a nessuno. Fino a quando un conoscente, uno del bar, un giorno non passò da quelle campagne, e si trovò di fronte a una sfilza di statue, così ben disposte, in orizzontale, che sembravano un esercito. Da quel giorno tutto il paese seppe che diavolo combinava Nicola Bertone. Poi, però, quando è morto, negli anni Ottanta, se lo sono dimenticato tutti”. Allora, eccomi qui per questo piccolo viaggio 1.0, verso un luogo sconosciuto, non tracciabile da alcuna mappa, tantomeno da Google Maps, sulla Fiat 500 di mio padre; questo viaggio nato dai sentieri del destino, da un foglio di carta dimenticato che rappresenta l’amore perduto; è forse vero che l’amore che resta non può che nascondersi dentro i cassetti delle stanze umide, delle stanze non più popolate, le stanze che
restano identiche a tanti anni prima, quando un bambino giocava al gioco bello e terribile che è poi il gioco preferito di ogni bambino: quello di sognare il futuro. Sappiamo ancora sognare il futuro. Il mondo accade, gli attimi si svolgono, e tu ti fermi a guardare un ragno attaccato alla ragnatela. Non ora. Ora conosco la strada. Supero il cartello “Oasi San Nazzaro”, un lago artificiale con ristorante e prato, leggo “Monteroduni”. Svolto. Dista ancora cinque chilometri il paese, ma non raggiungerò la piazza, i viottoli tortuosi.

Dovrò seguire le indicazioni che mi ha dato, al telefono, Michele Tuono. Oggi dovrò cambiare geografie e topografie. E dopo tutto ho pozzi in me abbastanza profondi. Ecco che adesso splende il sole. La radio canta una vecchia canzone di Ivan Graziani, Radici nel vento: “È vicino il confine e già vedo più in là, getterò i miei vestiti e nudo sarò io, nudo sarò… Questo viaggio è un’idea e durerà la mia vita. Ogni amore è una strada, l’orizzonte è laggiù. Perché Francesco è un pastore e ha vissuto trent’anni in un deserto di pietre per la sua verità”.
Canto. Metto la seconda perché la salita, superato il passaggio a livello, è sempre più ripida. Il paese è lì in cima, ed è così lontano, così vicino. Sono venuto a catturare la tua voce, Nicola, vecchio pastore innamorato della fantasia. Sono venuto a prendere la tua notte, che avanza con ali spietate nel nero della tua capanna. Una curva, poi un’altra curva. Monteroduni sorge su un piccolo colle: vedo il paese lì in alto, arroccato, come una fortezza solitaria. Da qui non si vede il castello Pignatelli, all’interno del quale si tiene, d’estate, l’Eddie Lang Jazz Festival. Me lo ricordo: da diciottenne, avevo assistito, incantato, a un concerto di Randy Brecker.
Erano trascorsi dieci anni, ed ero di nuovo qui. “Guarda sempre alla sinistra della via principale. Ci sono molte viuzze. Devi prendere quella sterrata, a elle” mi aveva detto Michele Tuono al telefono. Ho rallentato e ho fatto vari tentativi. Nel mio cd c’era ora Franco Battiato. “Non domandarmi dove porta la strada seguila e cammina soltanto” cantava. Forse è questa la strada. Porta dove si erge quella che fu la dimora di Nicola Bertone, il contadino scultore. Ho svoltato. Lotto ora con la Fiat 500; deve affrontare questa salita brecciata. Ce la fa. Continuo a seguire i dettami telefonici di Michele, il mio Caronte virtuale. Parcheggio all’altezza di un edificio abbandonato. Scendo dall’auto, guardo dentro. È una casa iniziata e mai finita. C’è lo spazio per il camino; non c’è il camino. All’angolo vedo alcune bottiglie di birra vuote. Qualcuno è passato di qui, ma di certo non sono operai. È tutto così sospeso. Devo affrontare la salita, ora. Tutt’attorno vedo le distese di verde, gli appezzamenti, il paesaggio che si distende, interrotto solo timidamente da strisce d’asfalto, da tornanti e da frammenti di tangenziale.

Tutto è abbandonato qui, ma non sento la decadenza: solo una specie di pace. Si stagliano, protetti solo da recinti cadenti, vigneti desolati. Percorro la salita: ora di fronte a me si svela quello che stavo cercando. Una batteria di sculture deformi, tanto disarmoniche da apparire perfette. Volti da indios. Volti dai lineamenti ispanici. Volti rossi, spaventati. Spaventano. Sono fantasmi di pietra che osservano dall’alto l’orizzonte molisano. Sono l’uno in fila all’altro. Sono sparsi, disordinatamente.
In paese lo chiamano “Il museo delle pietre”. Ma la voce non è mai girata. Lo conoscono in pochi fuori da Monteroduni. Ogni giorno Nicola Bertone era qui. Tutto ciò che so di lui, me lo ha detto Michele.
“Non troverai mai alcun taccuino, alcuna carta. Non ha mai scritto. In pochi lo hanno conosciuto bene”. Quale geografia umana aveva in mente Nicola Bertone? Chi sono questi individui di pietra che lui ha partorito? Cosa difendono? Uno è un militare. Ha in testa un cerchio di metallo. È il suo casco. Una ha il volto dipinto di rosso, sembra urlare di dolore. Il suo stomaco è fatto da una trentina di proiettili. E un altro? Un altro ha un cartello in mano. C’è scritto, con una calligrafia stentata: “Arnese di duemila anni fa”. Non capisco a cosa si riferisca. Un altro ha il volto germanico. Il suo corpo è fatto di un estintore. Questi sincretismi materiali. Questi volti porosi, tortuosi. Questi esseri immaginari e, allo stesso tempo, immaginifici.
Questo è un luogo pressoché completamente sconosciuto: non se ne trova traccia in rete, lo conoscono davvero in pochi fuori da Monteroduni. Non si comprende come non sia trapelata la notizia, come nessuno si sia mai interessato a questa Bomarzo nascosta, concepita, segretamente, da un pastore. Si tratta forse di quel contegno tipico delle piccole comunità. O forse dell’impossibilità di vedere sé stessi. Tutto ciò che ci è vicino ci è così lontano. Volto lo sguardo. All’angolo due volti di pietra sembrano tenere in piedi un dipinto. Al centro c’è uno specchio. Uno ha qualcosa al cuore. Una cornice dentro un uomo: è un’icona sacra: è Gesù Cristo.

Alcuni hanno corpi interi, altri solo teste.  Ogni tanto spunta qualche crocifisso. Apro un piccolo cancello, sono nella casupola che fu di Nicola Bertone, lo sento fraterno. Mi guardo attorno: il sole non scotta più. Ci sono altre forme, altre figure. Stavolta sono animali. Uno struzzo, una tigre, un paio di capre. Un leone. La sua criniera è fatta di frammenti di laterizio. Sono inquietanti; quest’uomo ha scolpito per anni, segretamente. Ha creato un mondo popolato di volti semplici, volti osceni, volti normali, volti mostruosi. E più in alto, appoggiati su una collinetta, gli animali. Come a voler stabilire una graduatoria capovolta? Ha inventato un mondo nuovo, Nicola Bertone. Un posto, a mio dire, pressoché unico in Italia.
Un posto sconosciuto a pochi chilometri di distanza. Cosa proteggono questi animali? Quale mondo interiore esplorava, ogni giorno, Nicola Bertone? Portava le pecore al pascolo. Tornava con pietre, grandi sassi. Scolpiva fino al tramonto. Creava questo piccolo popolo, che sfigura le costellazioni. “In paese era molto più apprezzato come pastore” mi ha detto Michele Tuono. “La sua specialità era far partorire le capre. Era un vero ostetrico delle capre. Era semianalfabeta, era molto intelligente.
Al bar filosofeggiava. Parlava di amore, di morte, di amicizia. Lo prendevano in giro. Non parlava mai del mondo che stava creando lassù, di nascosto Quando la notizia iniziò a girare, qualcuno gli chiedeva: “Ma che ci fai con tutte quelle pietre?”. Lui faceva finta di non sentire. Si chinava a lustrarsi le scarpe, quelle scarpe dell’epoca, gli scarpitt, fatte con le gomme delle macchine, legate con degli spaghi. Era sempre elegante. Giubbotto nero, camicia bianca, cappello a falda piccola, viso sempre glabro.

Diceva che esiste un mondo fuori e un mondo dentro. Scolpendo quei volti, era certo che stava navigando in quel suo mondo, il mondo dentro”. Sta arrivando il tramonto. Sono osservato da cento occhi di pietra. Sono occhi mostruosi, ma non ho più paura. Penso alle cose autentiche, alle vie laterali, agli abissi dentro i quali si nascondono. Talvolta nell’animo umano. Torno indietro, lasciandomi alle spalle i volti allucinati creati da Nicola. Mi guardano, e da oggi so che mi guarderanno sempre quando transiterò sulle strade molisane con la Fiat 500 blu di mio padre. Mi lascio alle spalle le vigne abbandonate e torno a navigare, in questa vita, cercando di tuffarmi, sempre, in ogni angolo, in ogni attimo, dentro quel mio mondo, il mondo dentro.




Per gentile concessione dell’Autore, che ringraziamo.




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